12 luglio 2016

ANM: In ricordo di Cesare Terranova


In ricordo di Cesare Terranova

Capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, assassinato dalla mafia.




Cesare Terranova(Palermo, 15 agosto 1921 - Palermo, 25 settembre 1979)
Consigliere della Corte di Appello di Palermo, assassinato dalla mafia.

Il 25 settembre del 1979, verso le 8,30 del mattino, una Fiat 131 arriva sotto casa del giudice Cesare Terranova a Palermo per condurlo in ufficio. Il magistrato si pone alla guida della vettura; accanto a lui siede il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, al quale è stata affidata la sua protezione. L'auto imbocca una strada secondaria che trova inaspettatamente chiusa per "lavori in corso". A quel punto, alcuni killer affiancano l'auto e aprono il fuoco con una carabina Winchester e con delle pistole. Il magistrato ingrana la retromarcia nel tentativo di sottrarsi ai proiettili; il maresciallo Mancuso impugna la Beretta di ordinanza. Viene esplosa una trentina i colpi. Il giudice muore sul colpo, Mancuso poche ore dopo in ospedale.

Secondo l'amico e scrittore Leonardo Sciascia, Cesare Terranova fu ucciso perché "stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo". Le prime importanti dichiarazioni sul duplice delitto di Palermo risalgono al 1984. A Giovanni Falcone, Tommaso Buscetta racconta che Terranova è stato ucciso su mandato di Liggio. Nel 1996, un altro collaboratore di giustizia conferma che Terranova era divenuto un obiettivo per Liggio e i corleonesi fin dal 1975. Liggio dal carcere ne aveva chiesto l'omicidio sia per vendicarsi della sentenza della condanna all'ergastolo subita sia perché Terranova si mostrava - quale componente della Commissione parlamentare antimafia - troppo determinato nel contrasto della criminalità organizzata. Secondo investigatori e giudici, quello di Terranova fu anche un "omicidio preventivo". Fu ucciso per stroncare la sua carriera e impedirgli di divenire Capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo: Ufficio dal quale avrebbe "perseguito con forza la strategia di recidere le trarne tra mafia e politica, obiettivo che contraddistinse sempre il suo operato, sia da magistrato che da politico".Nato a Palermo nell'agosto del 1921, Cesare Terranova entra in magistratura nel 1946 appena tornato dalla guerra e dalla prigionia. È Pretore a Messina e poi a Rometta. Nel 1958 si trasferisce dal Tribunale di Patti a quello di Palermo, qui avviando i celebri processi di mafia contro Liggio e altri boss mafiosi. Giunge poi a Marsala, dove - quale Procuratore della Repubblica - svolge numerose e difficili indagini. Eletto deputato, diviene componente della Commissione parlamentare antimafia e qui si distingue per impegno, intuito e professionalità, ponendo al servizio delle più alte istituzioni la esperienza accumulata nel corso della carriera di magistrato. Proprio in questi anni alcune sentenze di condanna di pericolosi appartenenti all'organizzazione mafiosa vengono annullate. Molti mafiosi tornano liberi e alzano il livello di scontro contro lo Stato. Terminato nel 1979 il mandato parlamentare, Terranova decide di tornare "a Palermo per terminare il lavoro cominciato". Il 10 luglio, il Consiglio Superiore lo nomina Consigliere della Corte di Appello. Tutti sanno che è una scelta "transitoria". Quando si presenta al lavoro, molti danno per scontato che gli sarà attribuita la direzione dell'Ufficio Istruzione. Prestigio, anzianità e competenza sono dalla sua parte. Ma la mafia non gli darà il tempo di ricoprire il nuovo incarico.Durante la sua attività di Giudice Istruttore a Palermo, Terranova seppe cogliere le metamorfosi che la mafia stava subendo nel suo divenire da agricola a imprenditrice, conquistando privilegi, commesse e licenze edilizie. Nei suoi scritti, il magistrato pone spesso l'accento sulla necessità di "leggi adeguate, polizia efficiente, giudici sereni" quali strumenti indispensabili nella lotta contro le mafie. Per Terranova non dovevano esistere "santuari inviolabili": "La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d'animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in gruppi o famiglie e non c'è una mafia buona o cattiva perché la mafia è una sola ed è associazione per delinquere. E, tuttavia, è cosa diversa dalla comune delinquenza: è, per dirla come Leonardo Sciascia, un'associazione segreta che si pone come intermediazione parassitaria fra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato, con fini di arricchimento per i propri associati".Nel commemorarlo, il Capo dello Stato, Sandro Pertini, Io ricorda così: «Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l'isola attraversava, dall'economia del feudo e rurale all'economia industriale e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo. Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d'animo: speranza nel futuro dell'Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della sua vita, fervida, integra ed operosa non è stato vano. Ancora una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia".E, nella sua "lettera-testamento" alla moglie Giovanna datata 1° marzo 1978, l'uomo" Cesare Terranova scrive: "Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine".

AMICI DEI CORLEONESI PROTETTI E RIVERITI PER 30 ANNI


Sei anni dopo le prime confessioni di Leonardo Vitale, a parlare è Giuseppe Di Cristina, mafioso di ben altro spessore che, presentatosi ad un ufficiale dei carabinieri, fece importanti rivelazioni. Per avere un’idea dell’importanza di Di Cristina, rappresentante della famiglia di Riesi, basta considerare, come riferito da Buscetta, che lo stesso partecipò alla strage di via Lazio, verificatasi nel dicembre del 1969 che fu decisa per eliminare Michele Cavataio, ritenuto uno dei principale responsabili – per i suoi tradimenti e per il suo doppio gioco -, della guerra di mafia dei primi anni 60 che aveva determinato lo scioglimento di Cosa Nostra. Giuseppe Di Cristina venne ucciso il 30 maggio del 1978.
L’importanza e l’attendibilità delle dichiarazioni del Di Cristina derivavano dai suoi stretti rapporti con Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, elementi di spicco di quella che potremmo definire la mafia “moderata” e nei cui confronti si scatenò l’offensiva dei corleonesi di Totò Riina di cui, una delle prime vittime, fu appunto il Di Cristina. E fu proprio per tentare di arginare il programma di sterminio degli avversari, messo in atto dai corleonesi, che di Cristina, temendo anche per la propria vita, si decise a formulare pesanti accuse nei confronti di questi ultimi, nella speranza che l’intervento dello Stato potesse, almeno momentaneamente, distoglierli dal proposito di eliminarlo. Purtroppo, così come già accaduto per Leonardo Vitale, le propalazioni del Di Cristina non vennero adeguatamente valutate con la conseguenza che nessun risultato di rilievo determinarono sul piano giudiziario.
Le confessioni di Di Cristina e le relative indagini che ne scaturirono vennero condensate in un rapporto redatto dall’allora maggiore dei carabinieri Antonio Subranni che così scriveva: “Le notizie fornite dal Di Cristina rivelano anche una realtà occulta davvero paradossale; rivelano cioè, l’agghiacciante realtà che, accanto all’Autorità dello Stato, esiste un potere più incisivo e più efficace che è quello della mafia; una mafia che agisce, che si muove, che lucra, che uccide, che perfino giudica e tutto ciò alle spalle dei pubblici poteri. (Ordinanza-sentenza del maxiprocesso, vol. V, pag.749).
Le rivelazioni del Di Cristina furono fatte all’allora capitano Alfio Pettinato, comandante della Compagnia di Gela con il quale il Di Cristina si incontrò in un casolare sito nella campagna del fratello Antonio Di Cristina. Il Di Cristina rivelò che Luciano Leggio sarebbe evaso dal carcere dove si trovava detenuto, che il giudice Cesare Terranova avrebbe potuto essere ucciso ad opera della cosca di Leggio per far ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio in considerazione del fatto che esso Di Cristina era stato perseguito proprio dal giudice Terranova per il caso Ciuni, che tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, in una riunione tenutasi a Palermo Riina e Provenzano avevano proposto l’eliminazione del ten.colonnello Russo e che la sua opposizione all’omicidio aveva fatto si che Riina ne avesse decretato la morte, sfuggendo però all’attentato per una fortuita coincidenza.
Di Cristina parlava anche del traffico di droga cui era dedito Leggio indicando una azienda, di proprietà di quest’ultimo (ubicata tra Napoli e Caserta) dove era occultato un grosso deposito di droga (l’azienda era intestata ad una donna ma era gestita dai fratelli Nuvoletta). Riferiva ancora che Luciano Leggio disponeva di una squadra di killer che utilizzava per l’eliminazione dei rivali; tale squadra era composta da 14 soggetti armati, con basi a Napoli, Roma ed altre città d’Italia. Indicava i vertici dell’ala moderata della mafia che si identificavano in Tano Badalamenti, Totò Greco inteso “Ciaschiteddu” , tale Di Maio e Gerlando Alberti soprannominato “paccarè”, nonché i nominativi degli appartenenti alle varie famiglie mafiose. Riferiva anche dell’omicidio del Procuratore Scaglione che sarebbe stato ucciso su mandato di Leggio il quale temeva che le attività intraprese da quest’ultimo potessero risolversi in un vantaggio per i Rimi, avversari dei corleonesi e legati al clan dei Badalamenti. Indicava ancora in Totò Riina e Bernardo Provenzano, soprannominati per la loro ferocia “le belve”, gli elementi più pericolosi di cui disponeva Luciano Leggio, responsabili –ciascuno – di non meno di quaranta omicidi, tra cui quello del vice Pretore onorario di Prizzi. Parlava anche del sequestro Corleo e del sequestro Campisi indicando gli autori e le motivazioni di tali sequestri.
Riferiva ancora che Riina, multimiliardario, riceveva una parte dei proventi dei sequestri che si verificavano in Calabria, compreso quello di Paul Getty, alla cui realizzazione aveva contribuito con la propria organizzazione. Dichiarava poi al capitano Pettinato, a conferma della consapevolezza dei rischi che correva per la propria incolumità: “Entro la prossima settimana mi arriverà una macchina blindata, fornitami dagli amici, che costa una trentina di milioni. Sa, capitano, peccati veniali ne ho e qualcuno anche mortale”
Di Cristina, in quanto rappresentante della “famiglia di Riesi” (Caltanissetta), pur essendo un autorevole esponente di Cosa Nostra, non poteva conoscere a fondo le vicende della mafia palermitana ma aveva appreso queste da quanto gli veniva riferito dai suoi amici palermitani, in particolare Bontate ed Inzerillo, il che è sufficiente per ritenere la sua attendibilità soprattutto se si tiene conto che le sue rivelazioni sette anni dopo sono state ribadite e confermate da Tommaso Buscetta. Così dicasi per quanto riguarda l’omicidio di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, l’omicidio del Ten. Col .Russo, l’omicidio di Cesare Terranova, il sequestro di Luigi Corleo, riguardo ai quali Buscetta ha fornito una versione dei fatti conforme a quella del Di Cristina.
Perfettamente coincidenti sono poi risultate le dichiarazioni di Di Cristina e di Buscetta per ciò che riguardava i rapporti dei corleonesi e in particolare di Luciano Leggio, con i Nuvoletta, malavitosi del napoletano. Le indagini condotte nell’ambito del maxiprocesso hanno poi consentito di accertare che l’elenco degli alleati dei corleonesi e degli appartenenti alle famiglie mafiose fornito da Giuseppe Di Cristina era senz’altro rispondente alla realtà.
Importanti notizie fornì inoltre il Di Cristina su Mariano Agate, rappresentante della “famiglia di Mazara del Vallo che indicò come uno dei più stretti alleati dei corleonesi e che fino ad allora era quasi sconosciuto agli inquirenti. Anche in questo caso le rivelazioni del Di Cristina trovarono anni dopo riscontro e conferma nelle dichiarazioni del collaboratore Salvatore Contorno secondo cui l’Agate gestiva, a Mazara del Vallo, un laboratorio per la produzione dell’eroina ed era molto vicino a Michele Greco. Riscontri univoci sono poi stati trovati, nel corso delle indagini relative al maxiprocesso sulle dichiarazioni del Di Cristina relative agli stretti legami esistenti tra i Corleonesi e Bernardo Brusca di San Giuseppe Jato, legami confermati anche da Salvatore Contorno e Tommaso Buscetta.
Di Cristina poi aveva preannunciato, cosa poi verificatasi, il conflitto che sarebbe esploso tra l’ala (per così dire) moderata della mafia e quella più violenta e sanguinaria, conflitto nel corso del quale, proprio lui sarà uno dei primi a cadere.
Non vi è dubbio quindi che ancor prima di Tommaso Buscetta e degli altri collaboratori che seguirono, Leonardo Vitale e Giuseppe di Cristina rivelarono l’esistenza della organizzazione mafiosa, della sua struttura unitaria, della sua natura violenta e pericolosa, delle sue attività illecite.
Scrisse Giovanni Falcone a proposito di Di Cristina: “Si deve sottolineare che se le rivelazioni del Di Cristina, ribadite sette anni dopo da Buscetta, fossero state tenute nel debito conto, perseguendo adeguatamente i corleonesi da lui accusati, probabilmente questa spietata e violenta organizzazione non avrebbe raggiunto gli attuali livelli di pericolosità”